Quando Dave Gahan asserisce che i Soulsavers
siano un progetto complementare ai Depeche Mode,
in realtà, fa una dichiarazione meno ruffiana di
quanto si possa pensare: il riferimento non è
solo riguardante l'opportunità del frontman di
trovarsi dinnanzi ad una band “già pronta” in
scena con cui collaborare, senza doverne
precostituire una in ogni occasione in cui
voglia sfogare la sua vena artistica; bensì sono
le stesse basi della band ad essere costruite
già ad inizi 2000 con un orientamento musicale
che non è così lontano da quell'alchimia di
elettronica filtrata al Gospel, Blues, Soul,
vista in dischi come Song Of Faith and Devotion.
Inizialmente i Soulsavers sono un progetto
atipico per le realtà musicali del nuovo
millennio: formati da un nucleo centrale di due
elementi, Rich Machin e Ian Glover, si muovono
nel sottobosco del Rock Alternativo grazie
all'ausilio di illustri voci che hanno reso
grande il genere dagli anni 80/90 in poi. Una
scelta che magari nei decenni precedenti avrebbe
fruttato un bel po' di copie vendute in più, nei
'00 hanno permesso “solo” alla band di fare
diversi dischi sicuramente importanti.
Dopo un EP di “riscaldamento” nel 2002 dal titolo “Beginning
To See The Dark”, l'anno dopo esce il primo
album “Tough Guys Don't Dance”. In questa prima
evoluzione la band propone un sodalizio
spontaneo che mischia un pizzico di Low Rock a
basi piuttosto Trip Hop, è il loro lavoro più
incline alle composizioni strumentali. Si passa
a territori quasi Jazzy con l'highlight
“Rumblefish” fino ad un Downtempo come “Down so
Low”, cantata da Josh Haden. Quest'ultimo è
l'ospite dietro al microfono del disco, compare
negli unici tre pezzi cantati rispetto ai nove
complessivi. Un bilanciamento corretto,
considerando che il songwriting della band
risulta ancora un po' acerbo dal punto di vista
delle melodie vocali. clicca
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