Perdizione e purificazione. Il doppio sogno dei Depeche mode giunge a un risvolto sorprendente


"Siamo morti notturni, dentro la stanza degli zombie/Parassiti crepuscolari con ferite che ci siamo inferti da soli”.

Le parole cantate da Dave Gahan nel ritornello di “The Dead Of Night”, uno dei brani più autoironici del nuovo disco dei Depeche Mode, Exciter, continuano a risuonare nell’inconscio durante la lunga passeggiata nel corridoio buio e sinistro di un lussuoso hotel del centro di Roma. 
Ripensando alla vocalità tetra di quel brano e alle cupe sonorità elettroniche che costituiscono da sempre il marchio di fabbrica della band inglese, ogni candelabro, specchio e tenda dell’albergo sembrano sistemati lì apposta, come se Martin Gore, Dave Gahan e Andrew Fletcher venissero accolti su un set cinematografico ispirato alle scene orgiastiche di “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick. Tradimento e risveglio, perdizione e ritrovamento catartico: la storia dei Depeche Mode, arrivati all’undicesimo album, non è poi così estranea al racconto di Schnitzler ripreso dal rimpianto genio della cinematografia.
Questa volta più che mai la penna di Martin Gore ha ritrovato sia il coraggio di scandagliare il fondo dell’animo umano che l’interprete di sempre, un Dave Gahan nato una seconda volta, a cinque anni di distanza dall’overdose di eroina che lo lasciò fuori dal mondo per due lunghissimi minuti. Tenendo fede all’immagine di “twilight parasites”, i Depeche Mode affrontano le interviste dopo una lunga nottata in discoteca e la consueta bevuta, che comunque rientra nella media delle quantità ingurgitate da qualsiasi ragazzo inglese.
Eppure, nonostante l’accento di Andrew Fletcher sia ancora legato all’Inghilterra, sentir parlare Dave Gahan e Martin Gore rivela subito il legame profondo con gli USA, terra di lunghi soggiorni per i Depeche Mode.

«Io vivo da nove mesi a Santa Barbara, California», si giustifica subito Gore, pronto a rilasciare a “Rockstar” l’intervista nelle vesti di autore di tutti i brani di Exciter.
«Sinceramente non mi manca il cielo grigio dell’Inghilterra. Adesso mi sveglio la mattina davanti a una montagna su cui splende il sole e la giornata assume una piega positiva fin dall’inizio». 

Ci siamo, Martin è un sensitivo. Prevede già la prima domanda e non vede l’ora di spiegare cosa è successo ai Depeche Mode, il perché di queste 13 nuove canzoni arrivate all’improvviso, quasi tutte avvolte da un’insolita aria ottimista, certamente oscura ma non scontata o negativa a priori.
«Sei la prima persona ad ammettere che non si aspettava un nostro nuovo disco, soprattutto così diverso da Ultra. Se ci pensi, sono passati quattro anni e a tutti è sembrata un’eternità... Ma hai centrato il problema: dopo un album finito in quelle condizioni (inciso da un Dave Gahan ancora in riabilitazione, ndr) e il tour seguito al greatest hits, sono volati via due anni senza avere neanche il tempo di pensare a una nuova canzone. Poi aggiungi gli inevitabili strascichi di un trio che passa insieme, notte e giorno, più di 24 mesi. Si litiga così tanto!», sghignazza Martin con Dave e Andrew momentaneamente assenti.
«E’ quindi soltanto da un anno e mezzo che mi sono rimesso a scrivere e nel mio caso si tratta di un processo a intermittenza. Non credo che l’ispirazione valida venga in qualsiasi momento, ci vuole metodo per discernere la roba di qualità dai brani di genere. Sui nostri primi due album, per esempio, non c’erano filtri, su disco andava davvero tutto» ride ancora il leggendario riccioluto biondo, ricordando l’era dell’electro-pop anni ‘80. 
«Ma veniamo al punto, l’ottimismo. Non saprei spiegarlo, sicuramente ha influito la permanenza a Santa Barbara durante la fase delle registrazioni. Eppure devo dirti la verità… il suono oscuro dei Depeche Mode è ancora intatto, qualsiasi cosa io scriva con la chitarra o con il piano, quando la canta Dave diventa immediatamente un pezzo alla Depeche Mode. Non c’è niente da fare, siamo sempre noi»... Sono sempre loro anche in quell’unione perfetta tra lo stile chitarristico blues e acustico e l’uso minimalista dell’elettronica, sempre al servizio della canzone, come nelle sequenze di “When The Body Speaks” o nel ritmo industriale che scorre in “The Dead Of Night”. 

Martin Gore è qui per ricordarci la naturalezza di un simile approccio. 
«Il caso del singolo è esemplare: il demo della canzone conteneva solo la mia voce con la chitarra ed ero sicuro che l’avremmo riempita di rumori elettronici. Ebbene, arrivati al quarto giorno di registrazione, “Dream On” ancora non girava bene, mancava qualcosa... Così ho provato a risentire come ci stavano gli arpeggi di chitarra del demo e… boom! Da quel momento abbiamo capito qual era la strada da percorrere per il resto del disco: una tecnica minimalista tra l’acustico e il tecnologico». 

Se tutto ciò succedeva già in Songs Of Faith And Devotion e in Ultra, questa volta sono le melodie scritte da Gore a favorire il livello più alto di commistione fra il marchio elettronico dei Depeche Mode e l’aura chitarristica del rock più genuino. In altre parole, Exciter contiene almeno quattro brani dotati di ritornelli all’altezza di “Enjoy The Silence”, con cui le sei corde vanno davvero a nozze.
«Appena ho riascoltato il primo demo di “When The Body Speaks”», va subito al punto Martin «l’ho trovato molto simile a un brano dei Righteous Brothers (formidabile duo di “soul bianco” degli anni ‘60). Abbiamo cercato di lasciare intatto il sapore antico, senza però farlo sembrare un campionamento».

I grandi songwriter degli anni ’50 e ’60 sono dunque un’ispirazione?
«Il mio primo incontro con il mistero della musica è stato quando da piccolo ho scoperto i dischi di rock’n’roll che mia madre teneva nascosti. Ma non è una fonte di ispirazione, semmai sono più legato a Lennon, Neil Young e Cohen». 

Per più di una generazione di fanatici dell’electro-pop e della musica elettronica, i Depeche Mode rimangono un’istituzione, dai primi vagiti filtrati da Vince Clarke fino all’ultimo producer Mark Bell, noto per aver plasmato il suono di Björk in Homogenic e Selmasongs. 
Perché proprio lui?
«E’ stata un’idea fulminante di Daniel Miller della Mute Records. Mark Bell, oltre a essere un nostro fan, è uno che sa dove mettere le mani per ottenere un certo suono. Non ho mai conosciuto altri producer con la sua conoscenza tecnologica e, inoltre, il lavoro che ha fatto con Dave alla voce è incredibile. Contro ogni cliché, ha trattato la voce come uno strumento dalla infinite possibilità sonore». 

E’ ovvio che Martin sa quello che dice, è lui infatti l’unico dei Depeche Mode a saper far davvero bene anche il DJ.
«Non faccio ballare nessuno» ammette divertito Gore «ma ammiro la scena underground e le tendenze più electro dark». 

A tempo scaduto Martin Gore, raggiunto nuovamente da Gahan e Fletcher, rivela con passione che non vede l’ora di tornare sul palco. 
«Stiamo preparando una nuova scaletta con i brani nuovi e una serie di canzoni del nostro passato, non necessariamente le hit che tutti conoscono. Per lo show visivo avremo ancora il contributo di Anton Corbijn, e questa volta vogliamo stare più vicini sul palco, attirando l’attenzione sulla musica più che sulle immagini dietro di noi». 

Lasciando l’albergo e i Depeche Mode, torna a ronzarmi nelle orecchie quella frase di “The Dead Of Night”, ma questa volta, dopo la chiacchierata con Martin Gore, scopro un’incredibile somiglianza con “Nightclubbing” di Iggy Pop. Ma non è neanche ora di pranzo… 



a cura di Francesco Gazzara